Catalogo DUCA 2014

Presentazione del prof. Francesco Federico Mancini

Incontrare Alvaro Breccolotti, in arte Duca, nel suo ambiente di lavoro è un'esperienza che lascia il segno in chi, come me, intrattiene con l'arte un rapporto quotidiano. Ha ragione Cristina Galassi, autrice del saggio che introduce in profondità alla comprensione dell'arte di Alvaro, a parlare di una dimensione operativa che assomiglia a quella di uno scriptorium benedettino: Alvaro è il monaco, l'amanuense o meglio il miniatore che consuma in solitudine, lontano dalle alienanti frenesie del vivere sociale, il suo rito pittorico. Definire Alvaro una sorta di moderno "nazareno", di mistico dell'arte che sceglie l'isolamento, la quiete boschiva, l'immersione nella natura per produrre le sue opere, esse stesse brani di natura, è quanto di più appropriato si può scrivere di lui. Con coerenza, il suo metodo di lavoro non conosce scorciatoie. L'arte è per lui un faticoso esercizio. È un modo per raccontare, attraverso una stupefacente, quasi ossessiva ricerca di perfezione, la profondità dei suoi sentimenti. Bisogna conoscere Alvaro da vicino, averlo frequentato, essere entrati nel suo mondo, per capire la sua insoddisfazione di fronte a risultati pittorici in apparenza riuscitissimi. Nulla ai suoi occhi, tantomeno l'arte che è specchio dell'interiorità ricca, sensibile, in evoluzione continua, si configura come concluso, completo, definitivo. Eppure le sue opere, raffinati esercizi di virtuosa maestria, trasmettono il senso di una controllata, per molti aspetti conchiusa, armonia di valori poetici. Instancabilmente proiettato verso la ricerca del bello ideale, il pennello di Alvaro cerca di catturare l'oggettiva magia delle cose naturali, andando al di là dell'epidermide; entra nell'essenza degli oggetti, scava in profondità per estrarre l'anima da realtà inanimate, per trasformare in nature vive e intensamente dialoganti cesti di limoni, canestri di ciliegie, mazzi di cipolle e di agli, funghi appena recisi che si portano dietro il profumo del bosco, della terra, del muschio, delle umide foglie autunnali. Non è facile ridare la vita a cose e a oggetti che la vita hanno perso. Non è facile trasformare la fragilità di una vanitas in un'affermazione di imperitura, incorruttibile bellezza. Se Alvaro riesce nel compito è perché sa catturare la luce racchiusa in ogni corpo. La alchemica capacità di Duca di estrarre la luce dall’interno delle cose spiega perché, anche nella penombra, i suoi oggetti continuano a brillare, a diffondere un chiarore intenso, stupefacente; chiarore che è inversamente proporzionale alla quantità di luce che entra nella stanza. Le sue “nature morte”, anziché essere metafore della vita che se ne va, del tempo che scorre, della deperibilità della materia, sono raffigurazioni simboliche dell’indistruttibilità della bellezza. Quello che Francesco d’Assisi sancisce con la forza del suo poetico sentire nel celebre Cantico delle creature. Dove un mondo degerarchizzato e solidale dà spazio e voce a tutto il creato. Dove anche gli ultimi, al pari delle cose, promanano una siderale, incoercibile luminosità.