Catalogo DUCA 2015

Testo critico del prof. Vittorio Sgarbi

Duca, o della Realtà necessaria: impeccabili nature morte

"Non inventa niente che non ci sia già stato la pittura dell’umbro Alvaro Breccolotti, in arte Duca. E’ un pregio, beninteso, di cui Duca ha perfetta coscienza. D’altronde, perché mai si dovrebbe inventare? E’ un mito del contemporaneismo artistico, linfa vitale prima delle Avanguardie, poi del mercato che le ha commercializzate, sempre in cerca di novità che giustificassero nuovi acquisti, nuovi valori economici a cui fare riferimento. 
Così, il nuovo, positivo nella sua motivazione di partenza, è diventato nuovo per il nuovo, proprio come nell’industria della moda, non a caso oggi così vicina al mondo dell’arte contemporanea. E quando il nuovo non emerge, perché le teste e i talenti espressivi sono quelli che sono, si tira fuori il vecchio riciclato, il vintage, spacciandolo per l’ultimo grido. 
 
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il sistema dell’arte ridotto a un assurdo gioco di società per danarosi e prezzolati, arrampicatori sociali e “cretini fosforescenti”, direbbe D’Annunzio, nel quale la sostanza intellettuale latita miseramente. Cosa per cui, mentre ieri nessuno poteva ritenersi intellettualmente evoluto senza conoscere Pollock, Burri o Van der Rohe, oggi, a prendere poco sul serio Hirst, Koons o la Hadid, ci si sente meno scemi. Giustamente. Perché cadere così in basso, si dice e ci dice Duca? Riprendiamo il discorso da dove era partito, dimenticando la frenesia del contemporaneismo a tutti i costi.
Abbiamo una storia alle spalle, più che millenaria, che non si è esaurita, convive con noi, con i nostri costumi, i nostri ambienti, i nostri modi di pensare. 
C’è una lingua, figurativa, rimasta la più comprensibile, anche per via del rilancio determinato, nei nostri tempi, dall’ipertrofia della comunicazione visuale, una lingua in grado di dire tutto ciò che di importante si possa esprimere, fondata su una grammatica che nella tradizione italiana ha trovato origine, presupponendo la necessità di una manualità artigianale matura, altamente evoluta. 
 
C’è, soprattutto, la natura, che, per quanto minacciata dalla scelleratezza speculativa della modernità, rimane ancora il referente estetico, sentimentale e filosofico prediletto dell’arte, l’oggetto obbligato della sua riflessione, oggi come ieri, ieri come oggi. 
 
E allora, perché non continuare quel discorso? Perché non perseverare nell’uso di quella lingua, che ci permette di dialogare allo stesso modo con il presente e il passato, gli odierni e gli antenati, nel segno, finalmente, della continuità e non di una drammatica, disperante rottura? 
Questo è il presupposto concettuale di cui dovremmo essere debitamente consapevoli ogni qual volta ci confrontiamo con un’opera di Duca. Sia che si tratti di una delle sue impeccabili nature morte, dove il realismo, trionfante, torna ad espletare una funzione ordinatrice del mondo, imperniata sulla iattanza della materia riprodotta, chiara, piena, incontrovertibile, a contrastare la tendenziale relatività dei nostri tempi, inserendosi lungo un percorso espressivo che dal primo impulso caravaggesco arriva alla modernità novecentesca secondo una chiave che, nel concertare il decisivo rapporto fra luce, forma e colore, potremmo definire latina (l’artista in persona mi indica, come suo riferimento, Claudio Bravo, preferendolo agli spagnoli), memore, comunque, di una lezione d’origine metafisica che nell’eccesso della realtà ricerca il suo segreto ultraterreno, la sua vocazione all’assoluto, senza peraltro che l’artista rinunci a riversare in questi obbiettivi il rigurgito diretto del proprio io, il suo modo, da artefice supremo, di essere attraverso l’essere altrui, nel rispetto del principio immanente del deus sive natura, rivendicando in tal senso il diritto a riproporre un soggetto, tipicamente pittorico, monopolizzato in epoca moderna dalla fotografia, che della verità non è certo il corrispettivo, semmai il più subdolo degli inganni. 
Sia che si tratti di un plein air, nelle infinite varianti stagionali, nei quali scorgerei il debito morale di Duca, più ancora che estetico, nei confronti di tutto quel Romanticismo paesaggista che ha preceduto l’Impressionismo, come se la tirannia della percezione sancita da Monet e compagni contenesse in sé un vizio capitale, la rinuncia, per l’artista, allo strumento mentale per eccellenza: il disegno. 
Non valgono le obiezioni per le quali la pittura di Duca potrebbe sembrare solo un déjà vu: infondo anche la Bibbia dice sempre le stesse cose, ma sarebbe ardito ritenerle tutte vecchie e inattuali. L’importante è la validità di ciò che si dice, o ridice. Perché anche in arte, dietro la bella veste, ci deve essere sempre una sostanza. E’ su quella che dobbiamo soffermarci, sempre."