Luce ritrovata
DUCA Luce Ritrovata
a cura di Gianluca Marziani
L’esercizio metodico della pittura taglia il tempo come un orizzonte continuo, una linea di rosso carminio che unisce epoche e luoghi tramite l’osservazione della figura, degli oggetti, del paesaggio, degli eventi, della vita in genere. Lungo i secoli si sono trasformate le città, sono cambiate le fisionomie e l’abbigliamento, sono nati oggetti in costante evoluzione: fattori che definiscono i frangenti epocali ma che mantengono inalterate le caratteristiche generali del discorso. Perché un corpo nudo resta tale, a prescindere dal momento e luogo, così come sostanzialmente non cambia un cesto di frutta fresca o un paesaggio dalla finestra. La questione di un tempo presente esiste sempre e solo nell’occhio di chi osserva. L’aderenza di un quadro al proprio zeitgeist dipende dal modo di guardare, dalle informazioni che l’artista metabolizza, dalla gestione dell’impianto iconografico. Se poi parliamo di pittura, linguaggio che non ha mai smarrito la sua aura archetipica, capiamo come non esista cesura dal Trecento ad oggi ma tutto rientri nell’ordine naturale dei processi, lungo quell’orizzonte continuo in cui le visioni si incrociano e amalgamano, in cui la Bellezza insegue un ultimo eden, in cui l’umanità persegue la medesima frequenza sentimentale.
DUCA si inserisce nel ciclo dialettico della pittura metodica, frutto di pensiero e ferrea disciplina. La sua è una visione che stringe l’inquadratura verso il piano d’appoggio orizzontale. L’occhio si isola dai colori accecanti del giorno, aprendo un dialogo coi protagonisti - i frutti – che si dispongono sul palcoscenico del tavolo. I vegetali ricomposti hanno l’aria degli aristocratici in posa, non a caso Arcimboldo li tradusse in un collagismo antropomorfo, rivelandone l’indole biologica e narrativa. Sul quadro vediamo attori muti con la ieratica pazienza che in natura hanno solo le piante, con quel dignitoso disporsi che definisce uno dei temi prediletti nell’arte: la cosiddetta natura morta.
In realtà dovremmo riflettere su una definizione – natura morta - che poco aderisce ad un mondo tecnologico come il Nostro. Forse servirebbe ripensarla per capire i nuovi confini che la scienza impone. Basti pensare agli OGM, alle nuove ibridazioni, agli artifici naturali, alle scoperte di generi e classi esotiche che secoli fa non si conoscevano. I cambiamenti ci impongono sì di ragionare dentro l’orizzonte continuo ma con un adattamento allo spirito del tempo, scagionando la Storia per abilitare una definizione più aderente. Vegetalismi funziona meglio, portando il linguaggio fuori dal tema della morte, rientrando invece dalla parte della Scienza, da una porta del progresso che trasforma i vecchi limiti (le scienze ragionano per gestire la morte) in una rinata apertura di senso.
DUCA elabora le sue opere con chirurgica attenzione ai dettagli. Lo stesso luogo in cui dipinge, un magnifico studio nel centro di Perugia, un’oasi per lo sguardo sensibile, mostra l’importanza del contesto per una pittura che stabilisce relazioni privilegiate con la luce solare. Nel suo laboratorio si percepisce una sintonia coi panorami oltre la finestra, capisci le frequenze che regolano i colori, capti gli equilibri di penombra e luce diretta, senti che la vibrazione dell’olio ha empatia con l’esterno. Perché una cosa non va dimenticata: le nature morte sono, prima di tutto, paesaggi sul piano d’appoggio, costruzioni d’artificio che trattengono il fuori e lo calibrano sulle proprie pelli, modulando la luce rispetto alle fughe, esprimendo energia solare attraverso colori, trasparenze, riflessi, ombre, venature.
Vegetali a cui manca solo la parola, direbbe qualcuno. Quelli di DUCA sono soggetti calmi, ieratici come alberi filosofici, l’ennesima sfida che l’arte lancia alla consunzione delle cose. Le nature morte, pensandoci bene, sono sempre state il contrario della morte in natura. Il pittore le ipnotizza in un preciso istante, bloccando il processo organico tramite la pittura, isolando il frangente ideale, l’attimo mai più sfuggente, la bellezza senza invecchiamento. La parola manca ai frutti, è vero, ma la loro fermezza è una battaglia vinta contro la simbologia della morte. Solide eppure mobili al loro interno, le visioni vegetali di DUCA ritrovano la Luce e la rilasciano in silenzio, avvolgendosi nel filo rosso degli orizzonti continui.
Le opere di DUCA non hanno bisogno di grandi formati per esprimersi. L’occhio si stringe meglio quando la composizione è compatta, e su questo ci sovviene la lezione umbra di Giotto e Cimabue, di quei pittori visionari che comprimevano la luce entro pochi centimetri. Il focus si sposta così sulla vertigine delle forme, sul loro antropomorfismo sottile, sulla maniera di inglobare i raggi solari. E qui si vede la perfetta direzione del metodo, la disciplina quotidiana dell’artista, il valore dell’atto fisico come equazione stabile di potenza e controllo. DUCA gestisce l’impianto elaborativo con un’armonia quasi musicale, somigliando al direttore d’orchestra che ha fuso gli strumenti in un singolo gesto della bacchetta (nel suo caso il pennello). L’onda manuale modula le coordinate degli antichi maestri in una dimensione che il tempo sembra rallentarlo a proprio piacimento, regalandoci una mirabile lezione, ovvero, solo la pittura può controbattere al flusso impazzito delle immagini digitali, al rito di rapida consumazione che invade gli habitat tecnologici. I quadri di DUCA incarnano la coscienza di un tempo zen che sfida la velocità del tempo digitale. Probabilmente vincerà la tecnologia ma qui si parla di magnifica resistenza e spazi esclusivi, di ragionamenti pindarici e territori del privilegio, sempre oltre il relativismo e gli abbagli mondani.
Gli stessi titoli ci aiutano a comprendere l’approccio di DUCA davanti al mondo. Si tratta di titoli metaforici o allegorici, di ispirazioni motivate, di richiami alle vicende, belle o drammatiche, della sua vita privata. Sono parole o frasi che volano oltre la finestra, accendendo l’energia mobile del quadro, offrendo un contesto poetico ai suoi attori vegetali.
Pitture di perfezione maniacale, geografie del metodo che inseguono, come ideale filosofico, la divina circolarità dell’uovo di Piero. Le opere di DUCA appaiono ma non scompaiono: prima ti catturano con quell’odore fotografico che resta solo un sentore, un’apparenza smentita dal pennello stesso; poi, quando ti avvicini, non nascondendo i segni di lecita imperfezione, ti avvolgono nella pulsazione dell’olio denso, nella tenacia utopica di comprimere la Natura in pochi centimetri. Lo vedi subito che non si tratta di pittura fotorealista (qui non si usa l’aerografo) ma di una lotta indefessa tra Uomo e Natura, una sfida aperta con un vincitore – la Natura – e un vincente - il pictor optimus che non molla mai.